giovedì 2 maggio 2013

Fedeli alla linea, ma la linea non c'è ... (del senso di realtà)



Fedeli alla linea, anche quando non c'è

Quando l'imperatore è malato quando muore o è dubbioso o è perplesso
Fedeli alla linea la linea non c'è 

Così cantavano Giovanni Lindo Ferretti ed i CCCP tanti ma tanti anni fa, quando la fedeltà alla linea era (ancora) un dogma. Dogma che oggi pare risorgere in un'Italia completamente diversa, dove i percorsi personali, anche i più sofferti (e quello del buon Ferretti Giovanni Lindo ne è esempio paradigmatico) si innestano in un contesto culturale, sociale, etico di enorme frammentazione e fragilità.
Ho già detto più volte, ma giova ripeterlo, che la principale causa di questa profonda degenerazione socio-etica sta nella figura di Silvio Berlusconi che rappresenta - anzi incarna - ciò che un paese solo superficialmente democratico come l'Italia, venera come vitello d'oro pagano: l'antistatalista, l'antisistema cialtrone ed egoista, l'a-solidale, il vagamente razzista, il cummenda, il chiagni e fotti, il fotti e basta …
Peraltro (tesi non mia ma di vari storici della politica) la storia italiana dell'ultimo secolo testimonia di come ai momenti di maggior tensione politica e sociale segua, con puntualità, un rafforzamento delle forze conservatrici, diciamo una sorta di immediata restaurazione. 
Berlusconi è figlio del '92, di Mani Pulite, della disgregazione di un sistema che non aveva né dava più punti solidi di appiglio. 
A maggior ragione oggi, Berlusconi - e comunque il moderatismo, il solido caro vecchio centro in stile Democrazia Cristiana - rappresenta un approdo cui i tanti ex e nostalgici (per non dire revanscisti) vagheggiano con ludibrio quasi sensuale. È tutta un'ode alle larghe intese, al senso di realtà (e le convergenze parallele no?). E quello che stupisce è l'acrimonia dei tanti ex contro chi si pone in dissenso. 
Capisco gli ex DC, oggi si ritrovano a casa: ai più vecchi sentendo Enrico saranno venute le lacrime agli occhi, gli sarà sembrato di sentire Fanfani. Ma quelli che faccio fatica a comprendere sono gli ex PCI (fedeli alla linea ...). La storia del PCI cui ammetto mi sono avvicinato solo negli ultimi anni, è per certi versi entusiasmante e bellissima. Però ho l'impressione che ancora oggi si fatichi ad accettare quello che il partito ha sempre considerato al suo interno il male assoluto: il frazionismo (le correnti DC codificate nel manuale Cencelli per capirci). E guarda caso - peculiare peraltro - le reazioni più violente sono sempre andate alle ali estreme (a sinistra): penso ad esempio al gruppo del Manifesto.
Oggi il bersaglio di tanto astio (perché di questo si tratta, mascherato da dialettica interna, ma basta sentirli nei circoli o nelle assemblee di partito per capirlo) sono i cosiddetti "giovani intellettuali", Civati in testa; nelle ultime riunioni cui ho partecipato la frase più gentile che ho sentito è stata "sì, ma lui è di Civati"). 
A parte che io sono di me stesso, e mi interessa il giusto la collocazione civatiana, mariniana o staminchiana (stavo pensando di fondare la corrente "'sta minchia" ...). Il punto centrale è: è tollerato o accettabile, non dico formalmente (nel precedente post ho approfondito il tema delle espulsioni), quanto sostanzialmente nella pratica quotidiana che vi sia qualcuno (uno, nessuno, centomila, un milione ...) che non è d'accordo?
La risposta è sempre a stessa: in questa situazione ci vuole senso della realtà. 
È vero: infatti il PD fino ad oggi non l'ha avuto. Come già il PCI nel '68, si è trovato del tutto impreparato di fronte a quella che Gramsci definì "una rottura generazionale", intendendo con questa espressione il passaggio della gioventù dopo la I guerra mondiale dal socialismo al fascismo. Allo stesso modo, oggi assistiamo ad un voto giovanile prevalentemente indirizzato al grillismo (e con questo non intendo fare alcun parallelismo) o all'astensione.
Qualcuno ha deciso che (e nel precedente post ho già criticato il metodo - ma la linea non c'è ...) anche per oggettive ed evidenti responsabilità della controparte, che il dialogo con M5S non era praticabile (peraltro mentre Longo nel '68 incontrò i capi del movimento romano - pur non condividendone tesi e metodi - da pari a pari, il nostro approccio con il M5S è stato indeciso, pavido ed evidentemente strumentale, lo ha riconosciuto anche Marina Sereni). Qualcuno ha deciso che erano necessarie larghe intese. Qualcuno ha deciso che il nascente governo dovesse nascere sulle ceneri dell'Ulivo, ucciso – quello sì, a tradimento – dai vili (perché di tali si tratta) che oggi magari siedono al governo (o vi hanno fatto sedere qualcuno).
Ora dicono ci sarà il Congresso. Sì, se ne avvertono già i segnali: un bel Congresso chiuso, riservato agli iscritti magari del 2001, che non considererà minimamente chi ha votato alle primarie, che cercherà di distaccarci sempre più dalla realtà. 
Ma tant'è: non è che questo scoraggia, tutt'altro. Magari almeno facciamo in modo che questa volta il Congresso sia bello tosto, bello duro, con delle belle tesi contrapposte, con dei bei modelli di partito contrapposti. Non è - credo - che abbiamo paura della minoranza: è una vita che – almeno io – sono in minoranza ... 
Quello che realmente spaventa è l'omologazione complessiva che tanto sa di autoreferenzialità, che trasforma il partito da un luogo di confronto, ad un intreccio di interessi. 
Spaventa che in nome di questa omologazione qualcuno ci voglia raccontare le favole o fare le lezioni di politica. Lo sappiamo fin troppo bene che siamo ad un passaggio storico, sociale e culturale dirimente: secondo voi perché stiamo facendo tanto casino? Ma ve lo siete chiesto? Se le risposte sono del tipo "sì, ma tanto il problema è che Civati voleva fare il ministro" significa che i dubbi che ho esposto sopra sono ben fondati e che, come nel '68, qualcuno ci ha capito veramente poco.


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